[Zona Pastorale San Donato fuori le mura] – Momento di Catechesi: Peccato e Riconciliazione: cosa c’entra con noi?

Per chi si fosse perso alcuni passaggi della catechesi di Mercoledì Scorso con Don Carlo Bondioli qui sotto il video completo ed alcuni appunti presi da Don Paolo durante la diretta.

PECCATO E RICONCILIAZIONE: COSA C’ENTRA CON NOI?

Catechesi di Zona Pastorale in preparazione alla Quaresima 2021 – 10 febbraio 2021 – don Carlo Bondioli

Per noi è importante cogliere il senso della parola “peccato” dentro una esistenza credente, come si può rigenerare una consapevolezza di questa dimensione del peccato dentro una esistenza credente; si parla non solo di trasgressione di una norma, ma di stare in uno spazio di “occhi” che credono.

Esistenza credente: si intende come un particolare modo di stare al mondo, un particolare modo di guardare se stessi, gli altri, la realtà, riconoscendo il bene che c’è in ogni cosa, anche in ciò che c’è di brutto, fallimentare… c’è un bene e questo bene è un dono. E’ lo sguardo sorpreso che vede che ogni bene è un dono che viene da Dio. La capacità di stupirsi, di meravigliarsi, è da accogliere come una grazia, come qualcosa di non scontato. Senza questo sguardo, è difficile comprendere esistenzialmente la dimensione del peccato, sapendo che il senso del peccato, si intreccia con tante altre cose (senso di colpa,… )..

La parola “riconciliazione” ci fa pensare al “rimettere insieme”.. riconciliare è, letteralmente, “chiamare di nuovo insieme”; la riconciliazione è un movimento che ha a che fare con una realtà dispersa, andata in pezzi. Ciò è eloquente, perché richiama l’espressione “Che peccato!”, che usiamo quando qualcosa di bello si è rotto.

Il senso di “essere rotti” ci riporta all’idea di una frantumazione di relazioni (con Dio, idea di una diffidenza; ma non solo.. ).

Il libro di Genesi inizia con uno sguardo, in cui Dio vede che le cose sono buone; ogni giorno, lo sguardo dice che le cose sono buone (senza questo sguardo, non si coglie il senso del peccato).

In Genesi: “Facciamo l’uomo a nostra immagine”… è un plurale, “facciamo”.. una tradizione rabbinica dice che c’è il plurale è perché Dio si rivolge all’uomo; Dio chiede all’uomo di collaborare alla creazione; l’uomo è un cantiere aperto; la creazione dell’uomo è l’inizio di una avventura nel rapporto tra Dio e gli uomini, per portare gli uomini fino alla pienezza, fino alla “somiglianza” (una immagine pienamente somigliante al Creatore). Qui c’è tutto il senso della libertà dell’uomo, che è il senso della sua dignità; ogni educatore sa che non può nulla se il suo educando non fa la sua parte.

E’ dentro lo sguardo buono di Dio verso la sua opera che noi riconosciamo quel fallimento che noi chiamiamo peccato; nel mondo nessuno si esime dal vedere che c’è il male, ma c’è un male di cui l’uomo è responsabile e anche la vittima.

Nel peccato, l’uomo si rompe; quel vaso plasmato per la bellezza è l’umanità; la sua bellezza consiste anche nella sua libertà, nell’essere una creatura chiamata. Il dramma della rottura, nel nostro mondo ossessionato dal consumo (in cui i malati, i criminali, i nostri rifiuti.. tutti devono stare ben lontani da casa nostra.. ), nella nostra cultura dello scarto, è importante. In una società consumistica, ciò che è rotto deve essere buttato, deve sparire, non si deve più vedere. Al di là delle conseguenze ecologiche, ci sono anche conseguenze esistenziali e umane. “Kintsugi” è una abilità giapponese che è l’arte di aggiustare le porcellane; nei monasteri si aveva la massima cura per il vaso con cui ogni monaco mangiava (e che non veniva sostituito finchè quel monaco stava lì in quel monastero); se si rompeva, si aggiustava. Oggi, nel nostro mondo, le cose non si aggiustano. L’arte del “Kintsugi” è una arte con cui i pezzi venivano riconciliati e la parte più preziosa (anche ricoperta di oro) era la crepa, su cui i pezzi si erano rotti.

La riconciliazione: spesso noi pensiamo a una idea di ripristino, come se l’azione di Dio ci ricomponesse in una posizione iniziale, come se fosse cancellato quel pezzo della nostra storia. Se così fosse, noi ci perdiamo il fatto che il perdono di Dio trasforma quella storia, non la cancella. L’immagine conclusiva del Vangelo di Giovanni è il Risorto che invia i discepoli, avendo le cicatrici della crocifissione sul suo corpo.

Noi abbiamo la simpatia per le creme che tolgono le crepe, abbiamo una idea di bellezza che rischia di essere fuori dalla storia. Invece, la storia di salvezza ci racconta la bellezza di tutta la storia; anche la storia di male può essere trasformata.

La prima parte del Vangelo di Marco si conclude con la professione di fede di Pietro: “Tu sei il Cristo”, Colui che ricostituisce una umanità piena, che il peccato ha asservito (nella prima parte, ci sono tante guarigioni, ecc…).

Poi c’è la seconda parte dello stesso Vangelo: la vita è chiamata a essere donata; lo scandalo del Vangelo: è vero che c’è un peccato che è “andare in mille pezzi” e che c’è una riconciliazione (salvezza) che è il ritrovare una integrità, ma questa integrità non è fine a se stessa; non c’è solo la rottura del peccato, ma c’è anche la rottura dell’ingresso di Dio nella storia, c’è una difesa della propria integrità che è peccato. Subito dopo aver confessato il Cristo, Pietro si sente dire che Gesù va a Gerusalemme per donare la vita. Gesù inizia a dire che c’è un modo diverso per stare al mondo, che manderà in pezzi il modo che gli uomini hanno per salvare la vita. Ecco l’altra sponda del peccato. C’è un acconsentire al modo di Dio che manda in pezzi la nostra autoreferenzialità, che è l’ingresso di Dio nella storia, che non è solo un ingresso della sua potenza, ma è il manifestarsi dell’amore di Dio, che afferra Gesù. Dopo il Battesimo di Gesù, la voce dice che Lui è il Figlio Amato; l’amore del Padre “espropria” Gesù, ora è suo. Il peccato è anche il difendersi da questa offensiva di Dio. Per San Paolo, il peccato sarà decadere dalla grazia, cioè il decadere da questo appartenere a Gesù, a un amore che ci espropria.

Tutta la seconda parte del Vangelo è il tentativo di sequela di Gesù da parte dei discepoli. Lo strappo dei cieli al momento del Battesimo è richiamato, alla fine, dallo strappo del velo del tempio, che non difende più gli uomini da Dio e nemmeno Dio dagli uomini (Gesù muore in croce).

Non è possibile avere il senso del peccato senza una vita di preghiera; non è che ci si convince qualcuno di essere peccatore (faremmo la magra figura degli amici di Giobbe, che non lo convincono né lo consolano); il punto non è accettare di essere un peccatore, ma riconoscere il dono di Dio; ecco il dispiacere davanti allo sciupio del dono di Dio; il senso del peccato è un atto di commozione davanti alla sua generosità, al suo amore, di fronte a cui noi preferiamo nasconderci e vivere a una misura più bassa, più gestibile, magari facendo di tutto ciò solamente una morale.

Cosa è la “contrizione perfetta”? Non è una super-contrizione, ma è la contrizione dell’amore. Il riconoscimento del peccato è il riconoscimento della bellezza di Dio, che rifulge nel suo amore. Altrimenti rimane tutto a un livello doloso, un po’ ricattatorio. Noi, oggi, siamo troppo “grandi” per il senso di colpa, ma forse siamo troppo piccoli e fragili per il senso della responsabilità.

In questo contesto, non si deve tornare indietro aspirando a una umanità che riconosce il senso di colpa, ma parlando di senso del peccato parliamo di qualcosa di più; ha a che fare con la contemplazione della bellezza di Dio, del bene che continua a seminare nella nostra vita e alla resa che suscita davanti alla sua proposta di appartenenza. Se dobbiamo crescere in questa consapevolezza, c’è bisogno di preghiera e di Vangelo; guardare la nostra vita alla luce della promessa di bene del Vangelo; lì prende nome il nostro senso del peccato.

Nella Confessione Sacramentale, uno dei ruoli del prete è quello del “medico”; il confessore testimonia che il medico è il Signore; con la medicina che è soprattutto è la Parola di Dio, può indicare una strada da percorrere. Però, si vede anche nei Vangeli, che non c’è un modo standard per Gesù di guarire. Ci sono quelli che guarisce di sua iniziativa, quelli a cui lo chiede, ecc.. questa è l’arte, che fa diventare quel vaso ancora più unico di prima. Noi non siamo il risultato del nostro tentativo di non aver fallito, ma di cosa abbiamo permesso a Dio di fare coi nostri fallimenti. Questo è ciò che permette a noi di essere unici. La vita ti rende unico, anche la strada della ricostruzione, della guarigione, è veramente personale, unica. Le Scritture sono un intreccio di storia, non c’è una unica storia di salvezza, ma la storia di salvezza viene continuamente re-interpretata; sono delle biografie. A ognuno è data la sua medicina, altrimenti sarebbe per tutti la stessa cura.. e non è così!

I bambini, normalmente, sono più esperti di questo; sono abilità che normalmente da adulti perdiamo e che dobbiamo fare in modo che non perdano. Sul sentire il dolore del male, i bambini sono normalmente esperti, capiscono che il male ha un suo elemento relazionale.

Per crescere nella misericordia, leggiamo Mt 18, che traccia la regola della comunità. La misericordia, essendo esperienza di gratuità, si fonda sulla gratitudine.

Per il Sacramento della Riconciliazione, la “necessità” della presenza del prete è legata alla forma attuale della Confessione.. magari in futuro cambierà, perché non è sulla capacità/dignità del prete che si fonda il Sacramento della Confessione. Entrambi, prete e penitente, celebrano la misericordia di Dio.

La cura è la stessa perché il vaso non si rompa e quella di ricomporre il vaso che si è rotto; è la stessa cura che dobbiamo avere (chi ha figli lo capisce); la grazia è l’amore di Dio; Dio ci ama affinchè non ci facciamo del male e, quando ci facciamo del male.